domenica 17 febbraio 2013

Roberto Benigni recita Dante (Inferno: Canto V, Paolo e Francesca)

MUSEO DI FIRENZE, CASA DI DANTE

Statua di Dante a Santa Croce: rappresenta la classica rappresentazione del Sommo Poeta


Il Museo della Casa di Dante si trova in una delle parti più antiche del centro storico di Firenze, in via Santa Margherita.


La casa di dante: La Torre dei Giuochi


Profilo di Dante scolpito su una lastra nel pavimento della piazzetta davanti alla torre


Interno del museo della casa di dante

     

LE MIGLIORI FRASI DI DANTE

  • È chiaro quindi che la pace universale è la migliore tra le cose che concorrono alla nostra felicità. 
  •  L'amor che move il sole e l'altre stelle.
  • Niente dà più dolore che il ricordare i momenti felici nell'infelicità.
  •  L'amore è più forte della vita e tanto vicino alla morte.
  •  Oh creature sciocche quanta ignoranza è quella che v'offende.
  • Tre cose ci sono rimaste del paradiso: le stelle, i fiori e i bambini.
  • Per me si va nella città dolente, per me si va nell'eterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore... fecemi la divina potestate la somma sapienza e il primo amore... dinanzi a me non fuor cose create se non etterne... e io etterno duro... lasciate ogni speranza voi ch'entrate.
  • Uomini siete, e non pecore matte.
  • Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende
    prese costui de la bella persona
    che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
    Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
    mi prese del costui piacer sì forte,
    che, come vedi, ancor non m'abbandona.
    Amor condusse noi ad una morte:
    Caina attende chi a vita ci spense!
  • Amor che a nullo amato amar perdona.

Il SASSO DI DANTE

- Aneddoto su Firenze e sulla vita di Dante Alighieri.

- Pare che Dante fosse solito sedersi sempre sullo stesso sasso in piazza del Duomo mentre era intento ad osservare la costruzione della basilica di Santa Maria del Fiore.
- Un aneddoto popolare narra che mentre il sommo poeta era seduto sul suo sasso preferito un uomo di passaggio gli chiese quale fosse il suo cibo prediletto; senza esitazione Dante rispose “L’ovo”.
- Un anno più tardi lo stesso uomo ripassò dal medesimo luogo e vedendo il poeta ancora immerso nei suoi pensieri gli chiese: “con che cosa?”.
- Prontamente Dante gli rispose: “co i’ sale” dimostrando una memoria davvero fuori dal comune.
- Per osservare il luogo dove era situato il sasso di Dante, attualmente ricordato da una pietra, dovete andare al numero 54 di piazza Duomo, la casa compresa tra piazza delle Pallottole e via dello Studio.
- Questa vicenda ha anche ispirato il nome di un ristorante situato in piazza delle Pallottole che si chiama appunto “Sasso di Dante”.






lunedì 11 febbraio 2013

PARAFRASI DEL SESTO CANTO


Riprendendo coscienza, persa
poco prima a causa del pianto tanto doloroso dei due amanti,
che mi fece abbandonare alla tristezza,
nuovi tormenti e nuove anime tormentate
mi vidi intorno, ovunque mi muovessi
e mi volgessi, ed ovunque guardassi.
Mi trovavo nel terzo cerchio, della pioggia
eterna, maledetta, gelida e violenta;
con ritmo e contenuto mai mutato.
Grossa grandine, acqua torbida e neve
si riversavano sui dannati attraverso quell'aria cupa;
facendo puzzare la terra che ne è imbevuta.
Cerbero, bestia crudele e di forme mostruose,
abbaia in modo rabbioso, come un cane, attraverso le sue tre teste,
sopra le anime dannate immerse in quel fango.
Ha gli occhi rosso sangue, la barba unta e nera,
il ventre largo e le man armate di artigli;
graffia le anime dannate, scuoiandole e squartandole.
La pioggia fa urlare i peccatori come fossero dei cani;
si mettono di lato per proteggere un lato del loro corpo, sacrificando l'altro;
i poveri profani si girano quindi spesso per cercare di attenuare il dolore.
Quando ci vide, Cerbero, demone dell'ingordigia,
aprì le sue tre bocche mostrandoci le zanne;
il suo urlo era tanto rabbioso che ogni parte del suo corpo vibrava.
Virgilio allora si chinò con le mani aperte,
prese del fango, riempiendosi i pugni,
e lo gettò dentro a quelle avide gole.
Come un cane che, abbaiando, desidera avidamente il pasto
e dopo averlo avuto si tranquillizza,
pensando solo a divorarlo, e si affatica nel farlo,
allo stesso modo fecero quelle tre gole sporche
del demonio Cerbero, con le quali stordisce le anime
tanto che esse vorrebbero essere sorde per non sentirlo.
Passammo sopra quelle anime indebolite
dalla estenuante pioggia, e ponemmo le piante dei piedi
sopra quei loro corpi artificiosi che li facevano sembrare persone in carne ed ossa.
Erano tutte quante distese per terra,
ad eccezione di una, che si alzò a sedere non appena
ci vide passare davanti.
"O tu, che viene condotto lungo questo inferno,"
mi disse, "prova a riconoscermi, se riesci:
tu sei nato prima che io morissi."
Ed io gli risposi: "La pena alla quale sei sottoposto
forse ti sfigura tanto che non riesco a richiamarti alla memoria,
così che non mi sembra di averti mai visto.
Dimmi allora tu chi sei, tu che in un luogo tanto dolente
sei stato recluso, e sei sottoposto ad una punizione tale
che, anche se ce ne fosse di peggiori, nessuna sarebbe comunque più disgustosa.
E lui a me: "La tua città, Firenze, che è tanto piena
d'invidia da non riuscire a trovare più posto dove metterla,
mi accolse quando fui in vita.
Voi cittadini mi deste il nome di Ciacco (porco):
ed a causa di quel mio dannoso vizio di gola,
sono stato messo qui, come puoi vedere, indebolito dall'incessante pioggia.
E non sono l'unica anima triste ad essere in questa condizione,
poiché tutte queste che vedi, sono sottoposte ad una simile
punizione per una simile colpa." Rimase poi in silenzio.
Io gli risposi: "Ciacco, la tua sofferenza
mi intristisce tanto da spingermi al pianto;
ma dimmi, se lo sai, a quale destino andranno incontro
i cittadini di Firenze, città divisa in fazioni, con le loro contese;
dimmi se esistono ancora persone corrette; e dimmi il motivo
per cui si trova in così tanta discordia."
E lui mi rispose: "Dopo una lunga situazione di tensione verbale,
inizierà un sanguinoso scontro fisico, e la fazione selvaggia,
i Bianchi, caccerà l'altra, i Neri, con molte perdite.
In seguito i Bianchi dovranno cadere,
entro tre anni, ed i Neri avranno la meglio
con l'aiuto di un principe che ora giunge per mare.
I Neri potranno tenere alte le fronti per lungo tempo,
opprimendo i Bianchi con pesi difficili da sostenere,
per quanto questi piangano e si reputino offesi.
Di persone corrette ce ne sono due di numero, pochissime, ma non vengono ascoltate;
la superbia, l'invidia e l'avarizia sono le
tre scintille che hanno infiammato gli animi dei fiorentini."
Così Ciacco terminò le sue dolorose dichiarazioni.
Ed io ripresi a parlargli: "Voglio ancora altre informazioni da te
e che quindi tu mi faccia dono di altra parole.
Farinata ed il Tegghiaio, che furono persone tanto meritevoli,
Giacomo Rusticucci, Enrico ed il Mosca ed anche gli altri
che misero il loro ingegno al servizio della patria,
dimmi dove posso trovarli e fammeli conoscere:
perché ho un grande desiderio di sapere
se gustano la dolcezza del paradiso o soffrono per l'amaro inferno.
E Ciacco disse: "Loro sono tra le anime peggiori;
peccati di diversa natura li opprimono giù nel profondo inferno:
se scendi tanto in fondo, potrai incontrarli e vederli.
In cambio del mio parlare, quando sarai tornato nel dolce
mondo, ti prego di ricordarmi ai vivi:
non ti dirò altro né ti risponderò oltre."
Detto ciò si mise sul fianco, guardandomi di lato;
mi osservò ancora un poco e poi chinò la testa:
cadde quindi a terra come gli altri compagni accecati dal fango.
La mia guida mi disse: "Non si solleverà più dal fango
fino a che l'angelo della resurrezione non suonerà la sua tromba,
quando arriverà il Giudice supremo, nemico dei malvagi:
ognuno rivedrà allora la sua triste tomba,
riprenderà il proprio corpo e la propria immagine,
ascolterà il verdetto del Giudice supremo, valido per l'eternità."
Attraversammo quella sporca mistura
di anime e di pioggia, a passi lenti,
ragionando un poco circa la vita futura.
Domandai quindi a Virgilio: "Maestro, questi tormenti, queste
pene, aumenteranno dopo la sentenza del Giudice,
verranno ridotte o saranno di eguale intensità?"
Mi rispose: "Domandalo alla tua scienza preferita, la filosofia,
che dice che quanto più l'essere è perfetto,
tanto più è sensibile al bene come al male.
Perciò, sebbene queste anime maledette
non raggiungeranno mai una vera perfezione,
si aspettano di averne di più dopo il giudizio estremo: dopo soffriranno pertanto di più."
Proseguimmo intorno al terzo cerchio,
parlando più di quanto sto riportando;
giungemmo infine al punto dove si scendeva al quarto cerchio:
lì incontrammo Pluto, demonio della ricchezza, grande nemico del genere umano.

SESTO CANTO

      Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,
      novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati.
      Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.
      Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.
      Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
      Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.
      Urlar li fa la pioggia come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.
      Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
      E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.
      Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,
      cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.
      Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.
      Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.
      «O tu che se’ per questo ’nferno tratto»,
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».
      E io a lui: «L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.
      Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».
      Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
      Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
      E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola.
       Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
      li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita».
      E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.
      Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
      Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti.
      Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi».
      Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: «Ancor vo’ che mi ’nsegni,
e che di più parlar mi facci dono.
      Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,
      dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se ’l ciel li addolcia, o lo ’nferno li attosca».
      E quelli: «Ei son tra l’anime più nere:
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.
      Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo».
      Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco, e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.
      E ’l duca disse a me: «Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:
      ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch’in etterno rimbomba».
      Sì trapassammo per sozza mistura
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;
      per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti
crescerann’ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?».
      Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.
      Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta».
      Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’i’ non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
      quivi trovammo Pluto, il gran nemico.


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PARAFRASI DEL QUINDO CANTO

Scesi così dal primo cerchio dell'inferno
giù nel secondo, che circonda un logo meno vasto
ma racchiude un dolore maggiore, che spinge a guaire.
Minosse sta sull'entrata, ringhiando e con atteggiamento
orribile: esamina le colpe delle anime all'ingresso;
le giudica e le indirizza a seconda di come avvolge la coda.
Dico che quando la disgraziata anima
giunge dinanzi a lui, fa a lui piena confessione dei peccati;
ed egli, grande conoscitore dei peccati,
capisce quale girone dell'inferno è più adatta ad essa;
si cinge con la propria coda tante volte quanti sono i gironi
per i quali vuole che l'anima sia fatta precipitare.
Di fronte a lui stanno sempre molte anime:
ciascuna secondo il proprio turno si sottopone al suo giudizio,
confessano, ascoltano e poi vengono gettate nell'abisso.
"Oh tu, che viene in questo luogo pieno di dolori",
disse Minosse rivolto a me quando mi vide,
abbandonando le funzioni del suo alto compito,
"guardati bene da quello che fai entrando qui e da colui nel quale poni la tua fiducia;
non ti illudere vedendo l'entrata dell'inferno tanto ampia ed agevole!"
E la mia guida verso di lui: "Perché continui a gridare?"
"Non cercare di impedire il cammino a cui è destinato:
così è stato deciso in paradiso, là dove di può fare
ciò che si vuole, e non chiedere altro."
Le voci straziate delle anime dannate cominciano adesso
a giungere al mio orecchio; sono ora giunto
in un luogo dove pianto disperato mi ferisce l'orecchio.
Giunsi in un luogo completamente buio,
che rumoreggiava come fa il mare agitato da una tempesta,
quando viene percosso da venti tra loro opposti.
La bufera infernale, che mai si arresta,
travolge nel suo turbine gli spiriti dannati;
li tormenta sbattendoli qua e là e percotendoli.
Quando giungono davanti al dirupo:
urla d'ira, richieste di compassione, lamenti estenuanti;
bestemmiano contro il potere divino che li condanna.
Compresi che a simile tortura
sono dannati i peccatori carnali, i lussuriosi,
che sottomisero la ragione alle voglie della passione.
E così come gli stornelli sono portati dalle ali,
durante la stagione invernale,  in una schiera larga e compatta,
così quel vento gli spiriti maligni
conduce ora di qua, ora di là, ora in basso ed ora in alto;
Non possono avere il conforto della speranza,
non solo di poter riposare, ma nemmeno di poter avere minore pena.
E come le gru che vanno cantando con le loro voci lamentose,
creando in cielo un lunga riga di sé,
così vidi venire, emettendo guaiti di dolore,
anime dannate portate dalla tormenta di cui parlo;
Domandai perciò: "Maestro, chi sono quelle
anime che la cupa tormenta tortura in questo modo?"
"La prima di loro della quale
tu vuoi avere notizie", mi disse allora Virgilio,
"fu imperatrice di molte nazioni, di popoli di svariate lingue.
Al vizio della lussuria fu tanto devota,
da rendere il suo capriccio rese legittimo tramite una legge,
per cancellare la mala fama in cui era caduta.
Lei è Semiramide, della quale si legge
che sia succeduta a Nino, re Assiro, e fu prima sua sposa:
dominò le terre ora governate dal Sultano.
L'altra è Didone, colei che si uccise perché innamorata e trascurata da Enea,
e tradì il giuramento fatto sulle ceneri del marito defunto Sicheo;
l'ultima infine è la lussuriosa Cleopatra.
Vedi quindi Elena di Troia, a causa della quale tanto tempo
infelice fu trascorso in guerra, e vedi anche il famoso Achille,
che alla fine della propria vita combatté e fu sconfitto dall'amore per Polissena
Vedi poi Paride, Tristano"; e più di mille
anime mi indicò con il dito e nominò,
che a causa dell'amore abbandonarono la vita.
Dopo che ebbi udito il mio maestro
nominare le donne del tempo passato ed i cavalieri,
fui invaso dalla pietà e fui quasi turbato.
Comincia quindi a dire: "Poeta, volentieri
parlerei a quei due che vanno insieme,
e nel vento sembrano essere tanto leggeri
E lui mi disse: "Attendi che siano
più vicini a noi; pregali allora di parlarti
in nome di quell'amore che li conduce, ed essi verranno a te."
Non appena il vento li fece curvare verso di noi,
iniziai a parlare: "Oh anime tormentata,
venite a parlare con noi, se nessuno ve lo impedisce!"
Come colombe, chiamate dal desiderio dei loro piccoli,
con le ali innalzate e ferme al dolce nido
vanno per via aerea, condotte dal proprio affetto;
così costoro uscirono dalla schiera di anime dove c'era Didone,
per venire da noi attraverso quel vento maligno,
tanto fu forte il mio grido affettuoso.
Disse una: "Oh uomo ancora, vivo dal cuore delicato e cortese,
che vieni a visitare, attraverso questa scura atmosfera,
noi che in vita abbiamo macchiato il mondo con il nostro sangue,
se Dio, re dell'universo, ci fosse amico,
lo pregheremmo perché tu possa vivere in pace,
poiché mostri pietà per il nostro male perverso.
Dicci puro che cosa vuoi udire e di cosa hai piacere di parlare,
noi vi ascolteremo e parleremo con voi volentieri,
finché il vento si mantiene quieto qui dove siamo.
Io nacqui a Ravenna, dove la terra poggia
sulla costa del mare, là dove il Po sfocia nell'Adriatico
per avere pace insieme ai suoi affluenti.
L'Amore, che subito accende il cuore gentile,
infiammò questo mio compagno attraverso quel bel corpo
che mi fu tolto; ed il modo selvaggio in cui mi fu tolto ancora oggi mi offende.
L'Amore, che esige che chi è amato contraccambi l'amare,
mi infiammò tanto forte per la bellezza di costui,
che, come puoi vedere, ancora non mi abbandona.
L'Amore ci condusse ad una stessa morte.
Ma la Caina, nell'ultimo cerchio infernale, attende colui che ci tolse la vita."
Queste parole furono da loro pronunciate a noi.
Quando appresi la storia di quelle anime tormentate,
chinai il viso, pensoso, e lo tenni basso per molto tempo,
fino a ché il poeta mi chiese: "A cosa stai pensando?"
Quando potei rispondere, cominciai a dire: "Misero me,
quanti dolci pensieri, quanta passione
condusse costoro al doloroso passo della morte!"
Quindi mi rivolsi alle anime e fui io a parlare,
dissi: "Francesca da Rimini, le tue pene
mi strappano lacrime di tristezza e pietà.
Ma dimmi: al tempo dei vostri dolci sospiri d'amore,
con che segno ed in che modo l'Amore vi permise
di conoscere l'inespresso desiderio dell'altra persona?"
E Francesca rivolta a me: "Non c'è maggiore dolore
che quello che si prova richiamando alla memoria il tempo felice,
quando ci si trova ormai in miseria; e questo lo sa bene la tua guida.
Ma se desideri tanto conoscere il primissimo inizio
del nostro amore,
te lo racconterò, mischiando le lacrime alle parole.
Un giorno stavamo leggendo insieme, per puro piacere,
la storia di Lancillotto e di come l'amore lo infiammò;
eravamo soli e senza alcun sospetto del pericolo.
Per più volte  quella lettura spinse i nostri occhi ad incontrarsi,
e ci fece perdere colore in viso;
ma solo un punto della storia vinse la resistenza di entrambi.
Quando leggemmo che la bocca ridente di Ginevra, tanto desiderata,
venne baciata da quel tanto famoso amante,
il mio compagno, che mai potrà essere separato da me,
tutto tremante mi baciò sulla bocca.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno non riuscimmo a leggere oltre."
Mentre uno spirito mi raccontava questa storia,
l'altro, Paolo Malatesta, piangeva; tanto che, per la pietà,
persi i sensi e svenni, come se fossi morto di crepacuore.
E caddi inerte, come cadrebbe un corpo morto.